ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 1 febbraio 2017

Fare la Tradizione

La reazione e la recriminazione



Gli anni passano, e passano veloci e chi vive di recriminazioni resta senza nulla in mano.

  Questo è vero per ogni cosa della nostra vita umana, ma è vero e forse ancora di più per la vita di fede, per la vita soprannaturale, la vita di grazia.

  Non è vero per un motivo moralistico, perché recriminare non è bene, non è bello; ma è vero per un motivo strutturale, cioè morale: la vita di grazia non può stare con la recriminazione, con il continuo lamento.


Con questo non vogliamo dire che non si debba reagire al male e alla crisi: questo foglio di collegamento è nato come reazione anche; per essere uomini di Dio occorre essere anche uomini di reazione, occorre reagire; ma la reazione, quella vera, è di natura diversa dalla recriminazione.

  La reazione parte dal positivo di una vita che si pone; la reazione difende un positivo che c'è già.
  La recriminazione, che non è reazione, parte dalla rabbia di chi aspetta da altri la soluzione dei propri problemi. La recriminazione parte da un vuoto terribile.

  Anche tra noi, nel mondo della Tradizione per intenderci, passa questa linea di demarcazione tra reazione e recriminazione.

  Chi, in questi anni, ha fatto la Tradizione, vive in pace e continua a fare un gran bene alla propria anima e alla Chiesa tutta.
  Chi, invece, in questo lavoro non è mai partito, per timidità, per prudenza umana o peggio per calcolo meschinamente umano, oggi vive di rabbia, colpevolizzando il sistema per i propri passi non fatti.

  Invece occorre avere una posizione morale veramente equilibrata, cioè cattolica.

  Ed è equilibrata, cioè vera, la posizione morale che non dimentica nessuno dei fattori in gioco nell'azione umana. Se dimentichi un fattore, diventi di fatto eretico, perché l'eresia è di per sé uno squilibrio, una sottolineatura indebita.

  La vita cristiana è vita soprannaturale, è vita di grazia, ma la grazia non annulla la tua libertà, anzi chiede che la tua libertà si metta in gioco: tu devi corrispondere alla grazia di Dio dentro un'azione reale, e non solo cerebrale. In una parola semplice, la grazia di Dio ti dà la capacità di operare il bene, tu poi devi operare il bene che Dio ti dà la possibilità di riconoscere e operare.
  Negare uno dei due fattori sarebbe squilibrare il disegno di Dio, sarebbe uscire dalla realtà.

  Non siamo Protestanti, sottolineando la grazia di Dio e basta: fanno così quei tradizionali che guardano al valore della Tradizione, e questo è giusto, ma che poi, fermandosi alla pura contemplazione, non agiscono di conseguenza. Non operano scelte concrete, che sono costose, perché la Tradizione diventi una vita reale per loro.

  Eh sì! perché se è vero che nella vita personale non si puo' sottolineare unicamente la Grazia di Dio che salva, dimenticando che da parte nostra deve corrispondere alla Grazia un’azione positiva reale – non ci si salva senza le opere, come ci ricorda san Giacomo nella sua lettera e come ribadisce tutta la Rivelazione e la Tradizione della Chiesa contro la pretesa protestante del sola gratia - se è vero questo per la vita personale, lo è altrettanto per la vita della Chiesa tutta, nel suo aspetto pubblico e sociale; e questo è vero anche per il ritorno della Chiesa alla sua salvifica Tradizione: che senso avrebbe essere giustamente anti-protestanti e poi attendere che la riforma anti-modernista della Chiesa piova dal cielo senza che tu abbia fatto nulla? E il fare non consiste in un recriminare o in un parlare della Tradizione, ma consiste nel porre opere concrete perché la Tradizione viva: prima tra tutte nel celebrare nel vetus ordo e nell’assistere alla Messa di sempre.

  Non siamo nemmeno Liberali, pensando che la grazia possa agire in noi senza limitare le nostre libertà personali (nei liberali le libertà personali prevalgono sempre sulle scelte definitive): che senso avrebbe, anche qui, volere la Tradizione nella Chiesa e non decidersi nell’operare concretamente a favore di essa al fine di restare liberi nei movimenti personali? Quanti “tradizionalisti” rischiano di fare così!

  Siamo cattolici: ci salviamo se corrispondiamo alla grazia, concretamente, se facciamo il bene, non se lo guardiamo da lontano.

  Così siamo Tradizionali, cioè Cattolici secondo l'assioma di Pio X, se facciamo la Tradizione concretamente, fino in fondo, espletando tutte le possibilità concrete che ci sono date, fino al sacrificio di noi stessi; non lo siamo, invece, se ci limitiamo a commentare da lontano la situazione disastrosa della Chiesa, anche se lo facciamo secondo idee tradizionali.

  La fede senza le opere è morta, sempre, anche nella Tradizione... sia questo il richiamo che segni il nostro passo.
LA REAZIONE E LA RECRIMINAZIONE
Editoriale di "Radicati nella fede" - Anno X n° 2 - Febbraio 2017
http://radicatinellafede.blogspot.it/2017/01/la-reazione-e-la-recriminazione.html



ESSERE CONTRO LA 

MODERNITA'?

    E' proprio vero che per il fatto di vivere nella modernità si è obbligati ad accettarla? Nella civiltà degli utili idioti ciascuno può essere antimoderno semplicemente scegliendo di essere se stesso e meglio se tornando a Dio 
di Francesco Lamendola  




Capita che qualche rarissimo intellettuale, come Massimo Fini, si dichiari nemico della modernità; e che qualcun altro, come Stefano Zecchi, punti il dito contro i crimini della modernità: però non capita mai, o quasi mai, di trovare simili posizioni fra la gente comune; per dir meglio: si direbbe proprio che il problema non sia all’ordine del giorno, o che non esista addirittura. Si vive nella modernità, dunque si dà per scontato che la modernità vada accettata; al massimo, qualcuno è disposto ad ammettere che si possano avanzare riserve, obiezioni, proposte alternative su singoli aspetti di essa, non certo sull’insieme. Ma è proprio vero che, per il fatto di vivere nella modernità, si è obbligati ad accettarla? Ed è proprio vero che rifiutarla equivale a chiudersi in una impossibile torre d’avorio, a voltare le spalle alla realtà e a sfidare a battaglia i mulini a vento, credendoli giganti, come fece il povero don Chisciotte?
Dunque: andiamo per gradi. Prima di tutto, bisogna definire che cos’è la modernità. E qui si scopre subito che esiste una grossa confusione fra la modernità intesa in senso meramente temporale, ossia la società moderna, della quale siamo figli e nella quale siamo immersi, per cui sarebbe assurdo prendere le distanze da essa, e la modernità intesa come quell’insieme di valori, di convinzioni, di miti, di conquiste tecniche e scientifiche, che, cementati insieme, e sorretti dal denominatore comune della fede incondizionata nel Progresso e dal rifiuto della trascendenza, della tradizione, del passato e della storia, hanno fornito l’elemento propulsivo, in forme sempre più definite e aggressive, del rinascimento, del capitalismo, della rivoluzione scientifica, dell’illuminismo, della rivoluzione industriale, dell’urbanesimo, del liberalismo, della democrazia, del socialismo, del positivismo, e, da ultimo, della rivoluzione tecnologica, della manipolazione biologica, della ideologia dei diritti assoluti dell’individuo e delle minoranze. In questo senso, si può parlare di una civiltà moderna, o, se si preferisce, di una contro-civiltà moderna, il cui avvento e la cui vittoria definitiva sono relativamente recenti: nel caso di un Paese come l’Italia, ciò è accaduto negli anni Cinquanta e Sessanta del XX secolo, dunque meno di settant’anni fa.
Esisteva ancora, in Europa e nel mondo, una potente forza morale, affiancata da una forte istituzione, che presentava caratteri tradizionali ed era orientata verso la trascendenza; che rifiutava tutti, o quasi tutti, gli aspetti caratterizzanti della modernità; che affermava fieramente la priorità dello spirituale sul materiale, dell’anima sul corpo (e sulla “psiche”, materialisticamente intesa), del dovere sul diritto, del sacrificio sul piacere, del giusto sull’utile, del vero sul redditizio: ed era la Chiesa cattolica. Il fatto che, da alcuni decenni, dentro di essa sia nata e si sia gradualmente sviluppata, come una metastasi, una neochiesa o contro-chiesa modernista e progressista, è stato il segnale della vittoria risolutiva della civiltà moderna sulle forze che le si opponevamo. Per cui i veri cattolici, oggi (e sono pochissimi), osservano sconcertati e abbandonati lo strano spettacolo di un papa modernista che si scaglia, in nome dei diritti astrattamente intesi, in un senso molto vicino a quello dei philosophes francesi del XVIII secolo, e a quello dei radicali dei nostri giorni, contro un capo di stato tradizionalista, da lui definito non cristiano, il quale preferisce parlare di doveri, di sicurezza, di famiglia, e che, invece di promettere tutto a tutti, pone dei limiti, fissa delle regole, esige il rispetto delle leggi. I veri cattolici, quelli che ancora esistono, dovrebbero riflettere a fondo su questo fatto: che dalla parte di papa Francesco stanno le minoranze aggressive e intolleranti, quelle che vorrebbero imporre il loro volere alla maggioranza: ci sono, in senso ideale, la signora Boldrini e Nichi Vendola, oppure, se si preferisce varcare i confini italiani e abbracciare il mondo, l’uscente Barack Obama e la mancata presidente Hillary Clinton: tutta gente che ha predicato, e praticato, la dottrina dei diritti a senso unico, e, nel caso degli ultimi due, che non si è fatta scrupolo di trascinare il mondo fin sull’orlo di una terza guerra mondiale, e non per difendere qualche minoranza oppressa, ma per gli oscuri interessi delle grandi lobby finanziarie.
E, sia detto fra parentesi, lo stesso rovesciamento nella collocazione “naturale” si osserva nell’area ideologica della sinistra post-marxista. Quelli che furono i difensori dei “lavoratori”, del “popolo”, sono adesso – diciamo dopo il 1989 e la fine della Guerra fredda – strettamente legati agli ambienti dell’alta finanza e della grande industria internazionali: strano ma vero, si è realizzato un discutibile connubio fra postcomunismo e supercapitalismo, e il “popolo”, il “proletariato”, son rimasti orfani dei loro vecchi patroni. Fino a qualche tempo fa, tra un italiano omosessuale e benestante, che va negli Stati Uniti per comperare un figlio da una donna indigente di origine indonesiana, e quest’ultima, i partiti e gli intellettuali di sinistra si sarebbero schierati dalla parte di lei, e contro di lui; e lo stesso avrebbero fatto le signore del femminismo, non senza levare altissime strida d’indignazione; adesso, invece, accade il contrario; silenzio/assenso, se non dichiarate simpatie, per lui (e il suo compagno, e la loro sacrosanta voglia di paternità), e silenzio assoluto su di lei. Tutto questo è indizio di qualcosa che non va; o è solo una nostra impressione?
La modernità, oggi, si concentra nel fenomeno della globalizzazione. Chi lo accetta, chi lo approva, chi lo valuta positivamente e si augura che si estenda ancora di più, è idealmente favorevole alla modernità; chi ne dà un giudizio negativo, è contrario alla modernità. Ma si può ancora esser contrari alla modernità, intesa in senso ideologico, oggi, quando ormai tutte le grandi correnti di pensiero si sono uniformate e appiattite nel consenso, e perfino la Chiesa cattolica è entrata a farne parte, auto-arruolandosi fra i suoi sostenitori? L’immigrazionismo, sostenuto con tanta convinzione da papa Francesco; la sostituzione dei popoli e della loro identità con una umanità indifferenziata; i matrimoni omosessuali, che il vescovo di Anversa vorrebbe vedere estesi al sacramento cristiano; il pluralismo religioso, la democrazia (in realtà taroccata e infeudata al potere finanziario), il primato dell’io voglio, del secondo me, della coscienza individuale, su qualunque verità oggettiva: tutto questo emerge dalle parole e soprattutto dagli atti di numerosi cardinali, vescovi e sacerdoti. Come si fa, dunque, ad essere antimoderni, se non c’è più un solo esercito antimoderno? Bisogna salire in groppa a Ronzinante e partire in cerca di un’impossibile confronto col nemico, armati in maniera obsoleta, con una bacinella da barbiere al posto dell’elmo, suscitando l’ilarità generale?
Prima di saltare a questa sconsolata conclusione, e prima di sentenziare che, ormai, non c’è più niente da fare, e che l’unica maniera di essere cittadini del terzo millennio è quella di accettare e approvare la civiltà moderna, ossia una contro-civiltà che ha deciso di suicidarsi e di trascinare alla rovina l’intera umanità (comprese le civiltà, come quella islamica, che non l’hanno accettata, o che l’accettano solo parzialmente), la cosa essenziale è domandarsi che cosa si vuole al suo posto. Non basta essere contro; bisogna essere per qualcosa: questa è la condizione indispensabile per essere portatori di speranza e non semplicemente dei ruderi, lasciati indietro dal flusso dei tempi e ridotti al malinconico ruolo di eterni e patetici brontoloni, o – il che, in fondo, è la stessa cosa - di Cassandre inascoltate. La vita non sa che farsene di quegli individui che sanno solo abbaiare alla luna: passa oltre e li lascia indietro, alle loro nostalgie e alla loro impotenza. In altre parole: se ci si accorge di essere saliti su di un treno senza conducente, che corre a tutta velocità verso il disastro, non basta lanciare l’allarme fra i passeggeri, e neppure mettersi a inveire contro l’inefficienza criminale dell’azienda ferroviaria: inveire non serve a nulla, e dare l’allarme serve solo a non essere creduti, ad essere scambiati per matti, se non quando sarà ormai troppo tardi, e tutti potranno vedere, con i loro occhi, la fine imminente della tragica corsa.
Il problema è che proprio la civiltà moderna ha forgiato persone di quel tipo: persone che sanno solo andare avanti, senza farsi domande, senza guardarsi troppo intorno; persone che, se si accorgono che qualcosa non va, non sanno pensare nulla che non rimanga entro l’orizzonte dello sterile lamento, perché non arrivano a immaginare un reale mutamento delle condizioni date. In altre parole, la civiltà moderna fabbrica utili idioti che l’accettano come un dato immodificabile, e che sono programmati per fare esattamente ciò che serve al suo funzionamento: non più persone, nel senso proprio della parola, ma numeri nella massa, tutti uguali e tutti foderati del più vuoto conformismo. Come altrimenti definire individui i quali, pur mancando di molte cose necessarie, si danno un gran da fare per riuscire ad avere il superfluo; e che spendono cifre notevoli per acquistare prodotti di marca, laddove potrebbero vivere benissimo con prodotti similari, che costano dieci o venti volte di meno? Individui che, pur attanagliati da un tragico malessere esistenziale, non arrivano neppure a intravedere la vera origine della disperazione, dell’angoscia, della depressione in cui si dibattono, e cercano anzi un sollievo nell’inseguimento sempre più compulsivo, sempre più irrazionale, sempre più autolesionistico, di oggetti e relazioni che altro non faranno, se non prolungare e accentuare la loro dipendenza e la loro infelicità. Essere antimoderni, allora, non può voler dire soltanto abbaiare alla luna; può e deve voler dire avere chiaro dove si vuole andare, come si desidera organizzare la propria vita, quali sono le cose importanti per diventare ciò che si è chiamati ad essere. In questo senso, essere antimoderni non significa, necessariamente, trovare un esercito, una consorteria, una parrocchia, nei quale arruolarsi, e in cui militare, perché ciascuno può essere antimoderno, semplicemente scegliendo di essere se stesso: scegliendo di essere persona, e non numero; di essere libero, e non schiavo del conformismo e del consumismo; di essere, invece che apparire. Anzi, è tipico dell’uomo moderno cercare sostegno in gruppi, il più numerosi possibile, proprio per la sua assoluta incapacità di stare da solo, di pensare da solo, di trovare in se stesso sufficienti ragioni per elaborare una propria filosofia di vita, ispirata a valori autentici e alla positività dell’essere, invece che alla smania dell’avere.
Tutto questo assomiglia molto a un umanismo assoluto, e noi crediamo fermamente che non sia questa la soluzione, che non sia questa la risposta da dare alla modernità. Al contrario, la civiltà moderna è stata eretta in nome dell’umanismo radicale; e poco importa se, di fatto, si è trasformata in una vera e propria espropriazione, o auto-espropriazione, dell’umanità dell’uomo. Noi crediamo che la modernità abbia tradito le proprie promesse – il benessere, il progresso, la felicità – non per una incoerenza tra mezzi e fini, ma proprio per una impostazione sbagliata dei fini. Il fine della modernità - proclamato, gridato, ripetuto fino all’ossessione – è la piena realizzazione e autonomia dell’uomo. Ora, questi due elementi sono, in realtà, inconciliabili: o l’uomo si realizza pienamente, oppure afferma sino in fondo la propria autonomia. Qui sta il grande equivoco, o, se si vuole, il grande inganno, la grande mistificazione. Se l’uomo si realizza sino in fondo, non può farlo che tornando a Colui dal quale viene: Dio; se afferma pienamente la sua autonomia, non può farlo che recidendo i legami con Lui. Ecco, allora, che essere pro o contro la  modernità equivale ad essere pro o contro Dio: ma tenendo ben presente che tornare Dio non significa mortificare la natura umana, non significa soffocare le sue potenzialità, bensì, al contrario, realizzare pienamente la sua natura ed esaltare tutte le sue migliori possibilità. Ecco un altro concetto-chiave: le migliori possibilità dell’uomo. Perché, nell’uomo, vi sono anche delle possibilità negative, malvagie, distruttrici: vi è anche un lato oscuro, pauroso, alimentato dall’invidia del grande Nemico degli uomini. La civiltà moderna nega l’esistenza di questo lato oscuro, o, se la ammette, la circoscrive ad alcuni casi patologici: non vuol riconoscere che esso esiste in ogni essere umano, e che i caratteri propri della modernità tendono a esaltarlo, a sollecitarlo, invece di reprimerlo o sublimarlo. La civiltà moderna non vede che è essa stessa una gigantesca costruzione dell’ego, dell’avidità, della cupidigia, della sete insaziabile di potere, di dominio: sulle cose, sulle persone, sul denaro, sul piacere, sulla tecnica, sulla natura, sul mondo. La civiltà moderna nasce da un delirio di onnipotenza, ed è per questo che vede Dio come un rivale, che bisogna sopprimere, assassinare, seppellire, perché, fino a quando ne esisterà anche solo il ricordo, l’uomo non sarà mai libero. Quasi tutto il pensiero moderno, la politica moderna, la scienza moderna, il sapere moderno, l’arte moderna, sono costruiti su questo assioma: affinché l’uomo sia libero, affinché si realizzi pienamente e sia felice, bisogna che Dio scompaia; e, se non vuol sparire con le buone, bisogna farlo sparire con le cattive. Le grandi persecuzioni anticristiane – in Messico, in Spagna, in Unione Sovietica -, avvenute all’interno di Paesi che sono stati forgiati dal cristianesimo, sono un prodotto necessario della modernità: si sono annunziate con il genocidio della Vandea, attuato contro una società rurale e cattolica che le forze della democrazia illuminista avevano deciso di far sparire, così come il bolscevismo avrebbe stabilito la cancellazione dei kulaki nell’Unione Sovietica di Stalin.
Ecco, dunque, come si può e come si deve essere antimoderni: ritornando al cristianesimo, ritornando al Vangelo. O la società europea trova la capacità di ammettere il suo errore storico, e ritorna ad abbeverarsi alle sorgenti dalle quali l’Europa è nata, oppure, per essa, non vi sarà più alcun futuro… 
Si può essere contro la modernità?

di

Francesco Lamendola



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